Uno sguardo sullo sviluppo del comparto delle carni nella produzione agricola del Friuli VG

Secondo Agrifood Fvg, con un valore della produzione pari a 160 milioni di euro, il comparto carni rappresenta circa il 20% del valore della produzione agricola del Friuli VG. Nell’ordine, contribuiscono a questo risultato le carni suine (8,5%), le carni bovine (7,2%) e il pollame (5,1%). 

Una importante strutturazione di filiera è rinvenibile nella Dop Prosciutto di San Daniele (28 prosciuttifici e oltre 150 allevamenti riconosciuti nella regione).

L’ampia diffusione della Pezzata Rossa Italiana (con oltre 13.200 capi curati da circa 350 allevatori, è la razza bovina maggiormente presente in regione) ha suggerito, anche in questo caso, la strutturazione di una vera e propria filiera sotto il marchio “Di sola Pezzata Rossa Italiana” alla quale, in regione, aderiscono una quindicina di aziende.

Gli allevamenti avicoli e cunicoli sono di tipo industriale e sono diffusi su tutto il territorio regionale. 
In una prospettiva di sviluppo, va considerata l’esistenza di molti comprensori idonei alle produzioni foraggera e cerealicola, nei quali gli allevamenti hanno un inserimento territoriale generalmente buono, la notorietà e l’apprezzamento della Dop Prosciutto di San Daniele (con oltre 2.600.000 cosce lavorate annualmente), l’attivazione della Igp del prosciutto affumicato di Sauris (dal 2010) e della Igp “Pitina” (prodotta e certificata, dal 2018, in 12 Comuni del Pordenonese) e la presenza di altre preparazioni alimentari tipiche e tradizionali (Pat) locali.
In questi ultimi anni si sono inoltre registrate alcune interessanti esperienze di allevamento biologico (bovini e avicoli in particolare) con modalità meno intensive.

Da la bree al “pronto cuoci”

La conservazione della sapiente tradizione norcina del Friuli VG, ha i suoi custodi e missionari-divulgatori. Uno dei più attivi (da una vita, praticamente) e più conosciuti, è senz’altro Mario Lizzi di Ciconicco di Fagagna, nato in uno dei “Borghi più belli d’Italia”, nel febbraio del 1951.
«La mia era una famiglia di contadini, come quelle della gran parte della nostra gente, all’epoca – racconta -. Mio padre era un ex carabiniere, mentre mia madre era un’operaia. Dal loro matrimonio, sono nati 5 figli e io ero l’ultimo arrivato. A un certo punto della sua vita, mio padre faceva il commerciante ambulante di frutta e verdura e coltivava un po’ di terra. Io ho frequentato le cinque classi elementari a Ciconicco, poi le medie, a Fagagna. Durante gli anni delle scuole medie, però, in inverno, il mio maestro norcino Valino Schiffo, (di Ciconicco, classe 1930), mi portava con sé a macellare i maiali nelle famiglie. A me spettava sempre une luiane, come ricompensa. Certo che frequentavo la scuola, ma avevo assai meno tempo da dedicare alla dottrina e, così, venivo spesso rimproverato dal parroco. Non avevo ancora terminato il ciclo delle medie quando, a 13 anni e mezzo, ho macellato da solo il mio primo maiale.

I vicini di casa e i compaesani mi chiamavano per il servizio della norcineria, a me piaceva questo impegno, ma il papà non era della mia stessa idea. “Prima rovina i tuoi maiali e poi quelli degli altri”, mi diceva. Come in tutte le famiglie rurali, anche a casa nostra si allevavano 2-3 maiali l’anno. Ero troppo giovane per queste cose, secondo lui, dovevo fare più esperienza. In un anno, solo nel nostro paese si macellavano oltre 200 suini l’anno. I 3 – 4 norcini attivi in paese ne macellavano una cinquantina a testa, ogni inverno. Ciò significava: 50 giorni di impegno, 50 famiglie con le quali intrattenere rapporti… Erano ancora gli anni del maiale nero ed è lavorando quel tipo di animale che, professionalmente parlando, mi sono “fatto le ossa”. Un suino che ancora rimpiango per la qualità delle sue carni. Il lardo era ottimo e la bontà del prosciutto di San Daniele si è fatta strada nel mondo grazie a quel maiale e alla qualità del suo lardo.
Terminata la terza media, in paese e a Fagagna ero già conosciuto per la mia attività di norcino e, dunque, mi presentai dal macellaio Dino Di Fant. Così, nel febbraio del 1966 (appena compiuti i 15 anni) iniziai a collaborare con il suo macello e con il collegato salumificio. Fu un’esperienza molto istruttiva e formativa. Basta solo dire che, nella struttura, si macellavano 150 suini a settimana e si trasformavano le relative carni in salumi. Ho anche avuto la fortuna di fare l’apprendistato con un bravo “maestro” salumiere dal quale ho imparato molte cose. Un anno dopo, con la mia attrezzatura sulla bicicletta, ero già di nuovo in giro per le famiglie a prestare la mia opera di norcino “artigianale”. Così, pure con l’aiuto di qualche amico e collaboratore, si macellavano anche 250 maiali a stagione. Il mio lavoro era apprezzato, i miei prodotti pure e il passa parola faceva crescere le richieste di intervento. Ovviamente, prestando servizio al macello avevo imparato le tecniche “moderne” che significava: maggiore igiene, pulizia e rapidità di lavorazione. E, da allora, la tensione verso l’innovazione non si è mai fermata.

L’evoluzione della professione è stata anche molto influenzata dal cambiamento dei consumi alimentari. È vero che del maiale non si butta via niente, ma è altrettanto vero che, in quegli anni, ciò succedeva anche perché c’era la necessità di mangiare tutto. Non c’era spreco poiché si dedicava la massima attenzione al “poco” cibo disponibile e all’economia familiare. La nostra norcineria tradizionale, in definitiva, si può dire che era una norcineria povera con tanti prodotti che servivano anche proprio a utilizzare ogni parte del suino, pure la più particolare. Il grasso e il lardo, poi, erano i prodotti principali. I maiali erano, mediamente, meno pesanti di quelli di oggi e si macellavano con un peso abbondantemente sotto i 200 chili. Ma la quantità di grasso e di lardo era importante e doveva essere tale da durare per tutte le necessità culinarie di un intero anno di famiglie, spesso, assai numerose. Ho visto piangere molte donne di casa davanti a un maiale troppo magro.
Nel 1976 ho aperto la macelleria di mia proprietà e gestione diretta, sempre a Fagagna. Naturalmente i miei clienti tradizionali hanno continuato a cercarmi per macellare i loro suini e, così, ho continuato a spostarmi tra le varie famiglie del Comune, anno dopo anno, fino al 2015. In questo periodo di attività ho anche istruito decine di giovani che ora sono ben avviati professionalmente e molto richiesti sul mercato del lavoro.
Nel 1981, ho aperto il laboratorio per la trasformazione della carne suina dove ho trasferito tutte le fasi della lavorazione dei maiali che macellavo nelle singole famiglie. È stata una scelta molto gratificante dal punto di vista professionale e operativo e ha rappresentato una grande novità, soprattutto in termini di igiene, pulizia, sicurezza e possibilità di preparare prodotti nuovi.

Ma la vera svolta professionale è avvenuta nel 1983 con l’”invenzione” del “pronto cuoci”: le famiglie diventavano sempre meno numerose; marito e moglie lavoravano tutto il giorno e avevano poco tempo per cucinare. È stata una rivoluzione importante, capita inizialmente soprattutto tra gli operatori e i cittadini di Udine. Col tempo, però, il “pronto cuoci” è diventato una proposta diffusa nelle macellerie e, oggi, chi non lo prepara, non riesce a far quadrare i conti. Il bello del maiale è che non solo di esso “si adopera tutto”, ma anche che con la sua carne “si fa tutto”. Cioè, come ingrediente lo puoi mettere dappertutto: nei “pronto cuoci”, nel ragù, nei tortellini…
Per 35 anni ho ricoperto la carica di presidente dei macellai di Confcommercio. Ho partecipato anche a molte manifestazioni gastronomiche e promozionali, in regione e fuori, legate ai prodotti suini, con buoni risultati. Senza dimenticare tutto il lavoro pluridecennale svolto in collaborazione con il Museo della Vita Contadina “Cjase Cocèl”, di Fagagna, dove si organizzano spesso iniziative per far conoscere e promuovere la tradizione norcina friulana. La più importante è, senz’altro, la Fieste dal Purcitâr che si tiene annualmente a gennaio (a partire dal 2005), a ridosso della ricorrenza di sant’Antonio abate, patrono dei norcini e protettore dei macellai. Sono occasioni dove incontro ancora molti appassionati della norcineria tradizionale friulana e dei salumi “fatti come una volta”, ma con gli accorgimenti moderni che consentono di ricavare prodotti dalla qualità ottima e senza l’aggiunta di conservanti».

Attorno al maiale: una tradizione di sostenibilità

Il ricordo del maiale allevato in famiglia, dei salami e dei salumi fatti in casa, ha i colori del bianco e nero. Molti si riconoscono in quella foto; altri, i più giovani, ne hanno sentito parlare; alcuni, sempre meno, riescono ancora a essere protagonisti delle nuove fotografie a colori partecipando a una purcitade.

Adriano Del Fabro, appassionato divulgatore e cultore della civiltà rurale friulana, affonda il coltello nel burro e, meglio, nel lardo. Dopo alcuni anni di ricerche, approfondimenti, appunti, interviste, mette a fuoco con il suo stile giornalistico, il tema del rapporto che i friulani, antichi e, soprattutto, moderni, hanno avuto con i suini, in particolare quelli allevati in famiglia. E prova a raccontare cosa questo mansueto animale abbia rappresentato per generazioni di persone, nell’allevamento e nell’utilizzo delle sue carni declinate in tanti prodotti, senza nulla rigettare, trasformandone alcuni in autentiche eccellenze mondiali o in ricette dal sapore unico. Un corroborante e fondamentale, in molti periodi storici, apporto di proteine distribuite con parsimonia nei giorni e nei mesi dell’anno. Sapientemente centellinate, potremmo dire. Un animale così grosso, sembra quasi paradossale, che viene in aiuto delle persone spesso coinvolte in situazioni di oggettiva difficoltà, se non di autentica miseria. Un animale che, senza retropensieri o necessità di regolamentazioni specifiche, era il simbolo della sostenibilità: sociale e alimentare in primis.
Dal racconto di Del Fabro si capisce che la stessa vicinanza del maiale all’uomo, all’origine della domesticazione, non è determinato solo dal fatto della necessità alimentare umana, ma anche dalla constatazione che i suini non erano competitori alimentari dei nostri avi e, il più delle volte, si accontentavano degli avanzi, comportandosi da autentici spazzini dei singoli nuclei familiari e, poi, ad esempio, delle comunità più ampie: ospedali, conventi, caserme…

Un animale che, se si nutriva di scarti, non produceva e non produce scarti poiché di esso tutto si adopera. E anche noi, oggi, lo sappiamo bene. Un quadrupede che ha visto moltiplicare il proprio numero legandosi, in anni più recenti, allo sviluppo di quelle benemerite istituzioni private collettive che sono state le latterie turnarie e sociali. Luoghi di produzione, sì, ma anche di democrazia, mutualità, solidarietà, salute, crescita culturale: “luogo sacro” per Pier Paolo Pasolini. A partire dal 1880, il loro ruolo nella comunità regionale è diventato centrale, razionalizzando la trasformazione del latte e portando nelle famiglie contadine più formaggio, più burro e, nelle porcilaie, più siero. Che finiva nei truogoli dei maiali casalinghi, con la più classica delle operazioni di economia circolare, contribuendo inoltre a dare alle carni quel sapore di tradizione che, una volta assaporato, è difficile dimenticare. Ma Del Fabro, nel suo percorso attraverso i secoli, mette in evidenza molte curiosità e alcuni “ritrovamenti” interessanti. Mi riferisco all’approfondimento sulle ricerche dei resti animali del Riparo di Biarzo, ad esempio, e al documento settecentesco, proveniente da Trieste, che racconta dell’epoca più antica in cui i termini “prosciutto” e “San Daniele” si sono definitivamente maritati e hanno iniziato a essere veicolati insieme: testimonianza della fama che, già in quel tempo dove portare le merci nel capoluogo giuliano (allora porto imperiale austriaco) voleva dire fare commercio estero, la rosea fettina friulana aveva conquistato. Ben approfondito pure il dettaglio sulla storia del salame ungherese figlio dell’abilità dei norcini friulani. Insomma, non certamente il primo libro su purcits e purcitârs in Friuli, ma un lavoro sottolineato da molti numeri, che descrive il forte legame che questo animale ha sempre avuto con la nostra gente e quanto sia stato determinante per creare benessere, economia e identità alimentare. Non certo con uno sguardo di rimpianto o nostalgia verso un passato che non ritorna (ed è meglio così), ma un ulteriore contributo per creare consapevolezza di quello che siamo stati, impegnati a costruire quello che oggi siamo e vogliamo essere. E per comprenderlo, è il probabile intento di Del Fabro, fare un po’ di cultura materiale aiuta. Tutti pensieri che PrimaCassa non ha fatto difficoltà a condividere e che hanno portato la banca a decidere di sostenere finanziariamente il suo progetto editoriale.

Wolf di Sauris: prosciutto di montagna e non solo

Ancora oggi si dice Prosciuttificio Wolf Sauris dopo che il norcino Pietro Schneider detto “Wolf”, nato a Sauris nel 1862, preparava svariati salumi con metodi tradizionali che si tramandarono fino agli anni ‘60 del secolo scorso quando il nipote, Giuseppe Petris, assieme alla moglie Licia, fondò l’azienda. Un’arte con origini antiche, ma che porta tuttora sulle tavole degli appassionati prodotti di qualità dai sapori inconfondibili. Produrre salumi in montagna, in un luogo isolato e distante dalle comodità (a 1.200 m s.l.m.), è un mestiere difficile. Un mestiere tramandato con l’esempio e la dedizione e che diventa, poi, valorizzazione di una cultura e di un territorio unico, come Sauris, e che Stefano e Katia Petris, assieme al marito Claudio Pravato, continuano a coltivare con grande passione all’insegna dell’eccellenza (la protezione dell’Igp europea del “prosciutto di Sauris” è stata ottenuta nel 2010) e della sostenibilità.

«L’acqua è un elemento prezioso e, dunque – spiega Stefano-, in azienda è presente un depuratore biologico all’avanguardia che la restituisce all’ambiente, dopo l’utilizzo nel processo produttivo, garantendone la purezza. Per le operazioni di affumicatura dei salumi (a freddo) si utilizza legna di faggio del territorio, a fronte di un rimboschimento con 2.500 latifoglie in una zona della valle particolarmente disastrata dalla tempesta Vaia del 2018. La nostra azienda, all’insegna del risparmio energetico, utilizza impianti termici/frigoriferi di ultima generazione che ottimizzano i consumi sfruttando le risorse naturalmente offerte dal microclima della valle, sia per le celle di stagionatura sia per lo stabilimento. Inoltre – conclude Stefano -, viene recuperato e riutilizzato il calore sviluppato dagli impianti frigoriferi. L’utilizzo di dispositivi illuminanti a led contribuisce, anch’esso, all’abbattimento dei consumi di energia elettrica».

Salumificio Molinari di Zuglio: abbiamo tradizione da vendere

È una bella storia friulana, quella del salumificio Molinari, portata al successo dal lavoro di una famiglia capace e tenace, impegnata nel fare impresa agricola e agroalimentare fin dal 1782. Famiglia di allevatori, i Gortani e di allevatori e trasformatori i Molinari uniti, attualmente, nella gestione del salumificio di Zuglio dove, in prima linea, ci sono la mamma Roberta, il marito Claudio Gortani (veterinario), il primogenito Alan, classe 1986, con la collaborazione delle sorelle Ariele e Marzia.

Dopo aver aperto, con successo, la macelleria di Zuglio, nel 1952, e aver dismesso l’attività di allevamento bovino, i Molinari-Gortani si sono concentrati sui suini e, nel 2012, all’ingresso dell’antico borgo, hanno costruito il nuovo macello (autosufficiente dal punto di vista energetico, grazie all’impianto fotovoltaico) con le relative sale di trasformazione e conservazione e il punto vendita (che si affianca a quello di Tolmezzo): una linea completa, dunque, con macellazione, lavorazione e vendita concentrate tutte nello stesso luogo.

«Qui vengono macellati, annualmente, circa 600 suini friulani, di 190-200 kg ciascuno, provenienti da un allevamento di Buia e, in parte, dai nostri pascoli dove crescono una ventina di capi allo stato semibrado – spiega Alan -. La carne, secondo il “metodo Molinari”, viene lavorata in giornata e si trasforma in una ventina di prodotti artigianali di alta qualità (quasi tutti affumicati con legno di faggio). Tutto il maiale, dunque, viene trasformato completamente per produrre qualità a 360 gradi e secondo la tradizione».
Ci sono, ovviamente, salame (dopo vari podi ottenuti alle passate edizioni del Campionato italiano del salame, quest’anno l’affumicato ha vinto il primo premio nella sua categoria), sopressa, speck e prosciutto (crudo e cotto), ma anche bresaola, wurstel, salsicce, muset, stinco, ossocollo, lonzino, pancetta, guanciale e lardo.