una riflessione con Giovanni Carrosio*

Cosa intendiamo, esattamente, quando parliamo di “aree fragili”?

Per aree fragili si fa riferimento a quei territori marginalizzati a causa di un disinvestimento strategico da parte delle istituzioni e dai processi di sviluppo: esse, nel tempo, hanno subito un forte calo della popolazione e una riduzione dei servizi alla cittadinanza. In queste aree, spesso, vi è una bassa densità abitativa e un importante capitale naturale, che proprio a causa dell’abbandono dell’uomo si sta lentamente degradando. Può sembrare un paradosso, ma in un Paese come il nostro, dove in passato l’antropizzazione è arrivata in ogni dove, l’ambiente e la sua ricchezza sono conseguenza della co-evoluzione tra uomo e natura: la natura si adatta agli interventi dell’uomo e l’uomo ha co-prodotto ricchezza naturale generando e gestendo una continua diversificazione degli spazi. Il ritiro dell’uomo comporta un degrado degli ecosistemi: anziché migliorare, si atrofizzano. Da qui una delle accezioni di fragilità: in questi territori è fragile la relazione tra uomo e ambiente. Il secondo elemento di fragilità riguarda la composizione delle persone che vi abitano: tanti anziani, pochi giovani, una popolazione sparsa su territori molto vasti rendono complicata l’organizzazione dei servizi e la riproduzione della società locale. Troviamo queste condizioni nelle aree rurali, nella montagna, in alcune aree di costa e di collina. Una geografia molto articolata: le aree fragili sono diffuse a macchia di leopardo sul territorio nazionale, in modo abbastanza omogeneo sia a nord che nel centro-sud. Se restiamo nella regione Friuli Venezia Giulia possiamo annoverare gran parte della montagna friulana, la zona costiera rappresentata dal triangolo Latisana, Monfalcone, Grado e l’area di confine con la Slovenia.

Questa fragilità evidenzia anche un problema di ineguaglianze tra le diverse aree del Paese. Tali disparità territoriali non sono certo una novità; come mai oggi tornano al centro del dibattito pubblico?

L’Italia delle aree fragili è un’Italia dove si annidano diverse forme di disuguaglianza. Economica, perché mediamente i redditi sono più bassi rispetto al resto del Paese; civile, perché la quantità e qualità di servizi è carente; di riconoscimento, perché le aspirazioni, le identità e i fabbisogni della popolazione che vi risiede sono spesso misconosciute dalla politica. Per tanti anni, infatti, sono rimaste al di fuori del dibattito pubblico; luoghi percepiti come un costo economico. È a partire dal 2016 che si sono imposte all’attenzione della politica, perché in queste aree ha preso forma una domanda di protezione sociale che si è incanalata nel consenso a forze politiche anti-sistema o euroscettiche.
Con il voto relativo alla Brexit, per la prima volta, si è polarizzato il voto tra vincenti (remain) e perdenti (exit) dell’integrazione europea. I territori che hanno votato exit sono tutte le aree fragili delle Gran Bretagna (aree rurali, coste spopolate, città medie in declino). Lo stesso è accaduto nelle successive elezioni politiche, in ogni Paese occidentale. Questa polarizzazione del voto ha portato la politica a guardare a queste aree come un costo politico e hanno preso forma idee e proposte per invertire questa tendenza. Infine, con la pandemia, il discorso pubblico sulle aree fragili è cambiato. Oggi vengono viste come una opportunità. Luoghi a partire dai quali ripensare le logiche insediative, valorizzando la rarefazione. Luoghi, dove lavorare a una offerta di servizi di prossimità. Luoghi da rimettere in moto per riconquistare forme di autonomia dai mercati internazionali.

In che modo gli interventi previsti nel PNRR potrebbero offrire soluzioni utili per diminuire tali disuguaglianze?

Nel PNRR ci sono tante risorse per le aree fragili. Investimenti sui borghi, sulle comunità energetiche nei piccoli comuni, sui servizi rurali (per esempio le farmacie multifunzione), sulle comunità green di montagna, sulla digitalizzazione per promuovere lavoro a distanza, e tanto altro ancora.
Il rischio è che le aree fragili fatichino ad assorbire questa massa di soldi. Le amministrazioni dei piccoli comuni sono deboli e sottorganico. Per valorizzare al meglio le risorse del PNRR ci vogliono uffici tecnici di livello e progettazione di qualità. Non aiuta il campanilismo: se non si intraprendono strade per processi di fusione, accorpamento, unioni tra comuni, diventa molto difficile che questi territori abbiano la forza politica e istituzionale di stare al passo con i tempi.

Oltre al PNRR, quali sono le condizioni perché i territori marginali ritornino ad essere attrattivi?

Ci sono tre condizioni fondamentali perché le risorse del PNRR abbiano successo e perché, oltre a questa grande possibilità, si inneschino processi di sviluppo nelle aree fragili.
La prima riguarda le condizioni di abitabilità: se non si fanno investimenti forti per organizzare servizi di qualità alla popolazione, in particolare per i giovani, diventa impraticabile immaginarsi una rinascita demografica, che già oggi – a condizioni date – può solo avvenire se persone da fuori decidono di andare a vivere in queste aree.
In secondo luogo, servono istituzioni locali più forti, competenti e organizzate. Bisogna promuovere un ricambio generazionale dei dipendenti della pubblica amministrazione e farlo facendo attenzione alle qualità professionali e competenze dei nuovi assunti: non più figure professionali incentrate sulla conoscenza della legislazione, ma figure con capacità progettuali e organizzative.
In terzo luogo, bisogna investire sulla connessione tra aree fragili e mercato. Nelle aree fragili ci sono anche tante attività, che pur avendo prodotti di qualità non sanno costruirsi mercati di riferimento. Bisogna lavorare per connettere una domanda di mercato diffusa nelle aree urbane, che cerca prodotti salubri, naturali e di qualità, con una produzione dispersa in tante vallate. Servono mediatori tra offerta e domande, che facciano fare un salto di scala, aggregando prodotti e consumatori in piattaforme di scambio.

(*) Giovanni Carrosio è professore associato di sociologia dell’ambiente e del territorio all’Università degli Studi di Trieste. In qualità di esperto di tematiche ambientali, fa parte del Comitato tecnico Aree interne – Presidenza del Consiglio dei ministri, dove ha lavorato come progettista dal 2014 al 2018 nell’ambito della Strategia nazionale per le aree interne.
Giovanni Carrosio, l’11 marzo, è stato ospite della SPES – Scuola di Politica ed Etica sociale, un’esperienza formativa pensata soprattutto per i più giovani e sostenuta da PrimaCassa”.